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Non chiedetemi che lavoro faccio (ci sono domande più potenti per capire chi si ha di fronte)

Non chiedetemi che lavoro faccio (ci sono domande più potenti per capire chi si ha di fronte)

La domanda “che lavoro fai?” mi ha sempre messo in difficoltà.
È una domanda comprensibile, ma mi chiedo se non ce ne sia una più efficace per entrare in contatto con gli altri.

Non è una riflessione sul senso della vita, ma una considerazione pragmatica: non mi è mai piaciuto dover rispondere a questa domanda, e quindi normalmente non mi piace nemmeno doverla fare.

I motivi sono diversi.

Chi ascolta tende a semplificare

Quando mi occupavo di HR in azienda, ad esempio, avevo un ruolo generalista: spaziavo dalla selezione di alcuni profili alla formazione, dalla gestione al supporto operativo nel coordinamento delle politiche HR delle consociate Italia ed estero, dal budget teste/costi alla valutazione performance, alle politiche retributive, e avanti così. Stavamo costruendo quasi da zero una corporate, con le difficoltà, i limiti, le potenzialità e l’entusiasmo di una start up. È stata una palestra bellissima.

Ma se qualcuno mi chiedeva “che lavoro fai?” e abbozzavo una risposta, la sintesi era “ho capito lavori al personale, assumi ecc”.

Oggi il mio ruolo è quello di account manager, ovvero “colui che gestisce (la relazione) con il cliente”. I miei clienti acquistano supporto formativo o consulenziale per risolvere problemi, fare meglio le cose che fanno, crescere. Non è come comprare a scaffale. Il mio ruolo è simile a quello di un advisor, consiste nell’orientare i clienti, aiutarli nell’analisi del bisogno — che spesso non è il loro ma del loro cliente interno — coinvolgere gli specialisti adatti al contesto, influenzare il giusto equilibrio tra soluzione ideale e soluzione praticabile, negoziare le condizioni della partnership, presidiare il processo di delivery, ecc.

Ma se provo a spiegare questo in una conversazione normale, spesso la traduzione simultanea è “Capito, fai il commerciale”.

Lo comprendo, chissà quante volte mi sarà capitato di farlo con gli altri, ma penso che ciascuno a modo suo cerchi di costruire/leggere un senso nelle cose che fa: è un (faticoso) lavoro di stratificazione che rischia di essere depotenziato da episodi come questo. Magari poi la cosa non ha conseguenze apocalittiche, ma mi crea comunque un certo disagio.

Identità lavorativa: chi sei o che fai?

La questione non è nuova, in realtà: dagli anni ‘90 in poi sul concetto di work identity si è scritto parecchio (vedi immagine sotto, se invece vi va di approfondire qui trovate una rassegna dettagliata).

Numero di articoli scritti sulla identità professionale dal 1996 in avanti

Il tema, tagliato con l’accetta, è questo: ciascuno di noi è molte cose contemporaneamente. Io sono un papà, un marito, un figlio, un lavoratore, e così via. L’identità lavorativa è quindi l’immagine che abbiamo di noi stessi in un contesto lavorativo specifico, cioè come ci percepiamo e di conseguenza come interpretiamo e ci comportiamo nel ruolo, nel mestiere che facciamo.

Per una serie di ragioni, legate anche all’interdipendenza tra il lavoro che si fa, e i denari che si hanno a disposizione, spesso tendiamo a far coincidere chi siamo con cosa facciamo (sono uno scrittore vs faccio lo scrittore). Qui il rischio è di metterla in filosofia, quindi taglio corto: la sovrapposizione tra ciò che si è e ciò che si fa la proiettiamo anche sugli altri, e quindi quando ci serve un metodo veloce per inquadrare chi abbiamo di fronte, la domanda su che lavoro fa ci pare — a me per primo — una buona approssimazione.

Poco male, in realtà, si può anche parlare del tempo e del traffico e chiuderla lì. Ma ho capito col tempo che, per quanto interessante, è una domanda le cui risposte fotografano solo un pezzo della faccenda.

Il lavoro spesso non ci dice molto della persona che abbiamo di fronte

Se ci pensate, infatti, si fa un mestiere per mille motivi, ma non è detto che esaurisca la propria passione. Certo, c’è chi vive il proprio mestiere come una missione, chi è coinvolto totalmente nelle attività che svolge, chi è motivato, proattivo entusiasta, chi si forma e aggiorna con piacere, e così via. Ma non vale evidentemente per tutti.

C’è chi vorrebbe fare dell’altro ma in quel momento è bloccato li, chi non ha capito qual è la sua vera passione, chi non ha il coraggio di rischiare e chi ha rischiato e ha sbagliato, insomma: dietro al lavoro di ciascuno si tengono insieme ragioni molto diverse.

Sì, lo so cosa ha detto Steve Jobs a proposito della domanda da farsi ogni mattina quando ci si sveglia, ma ognuno di noi conosce di certo più di una persona che non è entusiasta di fare ciò che fa ogni santo giorno.

Ma anche chi ha fatto della propria passione un lavoro, spesso non riversa le proprie energie solo su quel fronte.

Se conoscete o seguite personaggi interessanti, saprete che una delle loro caratteristiche più luminose è l’irrequietezza, in senso positivo.

Side project: la domanda più potente

Ecco, allora io credo ci sia una domanda più potente di quella sul lavoro.
Non saprei come formularla al meglio, ma la sostanza è: quali sono i tuoi progetti collaterali?

Se penso a molte delle persone che conosco e che ritengo professionalmente interessanti, hanno dei progetti collaterali.

Ho un amico che in azienda si occupa di digital marketing e nel tempo libero si sta esercitando a creare un e-commerce di prodotti artigianali. Un’amica che in azienda gestiva pratiche legali e nel tempo libero ha creato un laboratorio del diritto con altre volontarie per offrire orientamento legale gratuitamente e organizzare incontri di sensibilizzazione nelle scuole. Questa stessa rivista, Purpletude, è un progetto collaterale di molte persone.

Una volta li chiamavamo hobby, ma credo siano qualcosa in più. Sono dei progetti, a volte dei desideri, sui quali uno lavora in piena libertà, impara, sperimenta, genera entusiasmo che poi riversa anche nel proprio lavoro quotidiano.
E in effetti ho trovato una rappresentazione molto immediata di cosa siano i side projects e come differiscano dagli hobby e ve la ripropongo di seguito:

Credits: Julie Zhuo

Secondo la definizione che ne dà Julie Zhuo, VP Product Designer in Facebook e autrice, i progetti collaterali sono cose che ti piace fare e che ti aiutano contestualmente ad imparare/praticare competenze potenzialmente spendibili sul mercato (il pezzo in cui ne parla lo trovate qui ed è molto interessante).

Virtualmente ogni cosa che facciamo ci aiuta a praticare competenze che direttamente o indirettamente sono valorizzabili dal mercato: ma qui non parliamo di attività spot, parliamo di progetti, qualcosa cui si dà una certa struttura e che ci aspettiamo produca un output e ci faccia crescere, imparare cose nuove.

Quante cose in più si possono scoprire, di una persona, con una domanda così?

Non è una domanda facile da fare, e nemmeno da ricevere

Ci vuole allenamento, però, a fare domande così. E anche a rispondere.

Qualche giorno fa ho scoperto che un collega che si occupa di logistica nel tempo libero ha collaborato ad un progetto di criptovalute nel bergamasco. L’ho scoperto indirettamente, realizzando che la domanda sui progetti collaterali a lui non l’ho mai fatta perdendo — evidentemente — una bella occasione di conoscerlo sotto un’altra luce.

In effetti, non è una domanda facile. Perché, se chi hai di fronte un side project non ce l’ha, in fondo temi di metterlo in imbarazzo.
Ma in realtà questo tipo di progetti è fisiologicamente non costante: ci sono periodi dove è normale non avere energie, tempo o opportunità per portarli avanti.

Ma la domanda contiene in sé un dono prezioso… è un po’ come l’amico che ogni tanto ti chiede se vai ancora in palestra quando sa benissimo che non ci metti piede da un anno: punta il faro su un piccolo vuoto da riempire, ti pungola moderatamente e in nove casi su dieci dal giorno dopo non accade nulla di diverso.

Ma una volta su dieci, magari sì.

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