Sono un umanista in rete. Nasco analogico e cresco digitale.…
Le Asics di Carmelo sono bucate, le suole lisce dall’uso, le stringhe riprese da chissà quale altro paio. Io quasi mi vergogno, con le mie nuovissime Dolomite. Ma si è raccomandato, lapidario, prima di portarci nella gravina ai piedi del suo pase che muore: “Se non avete le scarpe giuste, non vi porto”.
Il sole è alto su Ginosa e lui, nonostante la canicola e l’età, si avvia deciso verso il torrente in secca. Ci siamo incontrati per caso, al buio della Chiesa Matrice affacciata sul canyon di arenaria, e ora ci ritroviamo a seguirlo sotto una luce abbacinante. Lui serra gli occhi come un gatto nel meriggio, sa che nell’ombra delle case-grotta gli occhiali sarebbero di troppo. Le nostre lenti nere tradiscono l’abitudine ai cieli del Nord.
Ginosa, il paese che muore
In piena terra di gravine, ai lembi meridionali delle Murge, Ginosa è un avamposto sconfitto di un tempo che fu, una fortezza Bastiani risparmiata dalle orde di Matera 2019 Capitale Europea della Cultura, ma non dalle bordate di uno Stato indifferente. Un paese che muore per ferite profonde che da solo non riesce a ricucire.
7 ottobre 2013. Dopo giorni di piogge torrenziali, un’enorme massa d’acqua irrompe nella gravina e fa scempio della città più bassa e antica. Un’alluvione devastante dà il colpo di grazia a un territorio già compromesso, spazzando via i progetti di rinascita che allora attecchivano tra le chianche.
Tra questi, quello del celebre sarto Angelo Inglese, ginosino le cui raffinatissime camicie hanno fatto il giro del mondo. Dopo aver vestito attori e regnanti, stava aprendo un atelier appena sotto la Chiesa Matrice, per dimostrare che solo da bellezza può nascere bellezza e, sì, scommettere laddove in pochi avrebbero scommesso. Ma l’acqua ha compromesso le fondamenta di quella parte del borgo, e il suo sogno si è ritrovato in piena zona rossa. Transenne, porte sprangate e dita di polvere sui telai.
Ginosa è così, c’è da farci niente. Case, palazzi e botteghe che posano su infiniti livelli di case-grotta, cisterne, chiese rupestri, necropoli, antri di cui si è persa memoria. Un groviera cresciuto nei millenni su se stesso, cavità su cavità, unico e fragilissimo. Da quel tremendo ottobre, sulle tante promesse sono cresciuti soltanto cespi di capperi e ragnatele: la splendida “Matera di Puglia” è abbandonata a se stessa, affetta da un tumore che progressivamente la divora, necrotizzandola pian piano, dal fondo della gravina in su.
Italia, il Paese che muore
Ma Ginosa è in buona compagnia. In tutta Italia sono 74.000 le persone che, dal 2012 al 2017, hanno abbandonato i piccoli centri per trasferirsi nelle zone più urbanizzate (fonte: DiRE). Se pensiamo che i comuni nostrani che contano meno di 5.000 abitanti rappresentano il 72% del totale, possiamo facilmente immaginare che volto avrà l’Italia profonda di domani. Un volto come quello di Carmelo e di Ginosa.
È un fenomeno che affligge tutto il Bel Paese e, in particolare, la sua colonna vertebrale, la dorsale appenninica: dal Levante ligure agli altopiani lucani e alle estreme murge apule. Già nel 2005, Legambiente censiva più di 5.000 piccoli centri a rischio abbandono: il 55% del territorio nazionale, costituito per lo più da zone di pregio naturalistico, aree protette e parchi. Oggi, secondo Planet B, gruppo di ricerca-azione su città paesaggi ed economia civile, di questi 5.000 piccoli centri a rischio, quelli già in avanzato stato di abbandono sono circa 2.300. Il primato va alla Toscana, ma tutte le regioni ne hanno almeno uno, nessuna è esclusa.
Un Paese ferito
Proprio come Ginosa, il 34% dei borghi italiani in abbandono è stato lasciato in seguito a calamità quali alluvioni, smottamenti e terremoti; il 9% per carenze infrastrutturali; il 5% per eventi bellici o per altre azioni umane più o meno scellerate. Accadeva ieri ma, oggi, che cosa impedisce di risollevare queste pietre?
I dati ISTAT analizzati da ANCI, Associazione Nazionale Piccoli Comuni d’Italia, parlano chiaro: oltre il 40% di chi ha abbandonato un piccolo borgo non tornerebbe sui propri passi. Nemmeno se avesse lì assicurato un posto di lavoro dignitoso. La mancanza di investimenti che impediscono il ripristino dei luoghi, l’assenza di prospettive economiche, l’invecchiamento progressivo della popolazione, la carenza di infrastrutture sono solo alcune delle motivazioni all’origine del fenomeno attuale dell’abbandono e di quello, forse peggiore, del non-ritorno: è il modo di vivere di questi piccoli borghi nel suo complesso, a essere diventato insostenibile.
Radici da dimenticare
Abbiamo venduto l’anima al benessere, l’eldorado dei baby boomers, la prima generazione ad aver abbandonato in massa le pietre natie, bramosa di un riscatto culturale, sociale ed economico che oggi presenta inevitabilmente il conto all’intero Paese. Riconvertire il proprio stile di vita a un qualcosa che ricorda i giorni dei nonni non è allettante per nessuno.
Ginosa rappresenta al meglio questa tendenza. La città antica muore lentamente in basso, tra la vergogna degli anziani per gli anni delle case-grotta, l’indolenza diffusa del “che ci posiamo fare” e la mancanza di risorse dei giovani che pure vorrebbero mettere mano ai ruderi. La città nuova vive più in alto, ormai quasi del tutto aliena alle proprie radici, un centro moderno e piuttosto anonimo come tanti ne abbiamo in Italia. Un moto dal basso all’alto, economicamente, socialmente e strutturalmente; giù nella gravina quello che eravamo, su quello che siamo. Due mondi che, dopo l’alluvione, non si tengono più per mano.
Non a caso, a Ginosa ce lo chiedono tutti: “Che siete venuti a fare? Perché siete qui?” È un ritornello dettato non da ritrosia, ma dalla genuina incredulità che qualcuno possa venire da lontano ad ammirare quella loro inconsapevole e ancora vergine bellezza.
La Ginosa di Carmelo
Poi c’è lui, Carmelo. Che si ostina a non lasciare la zona rossa. L’ultimo abitante della Ginosa abbandonata.
Resiste insieme alla sorella, al lato della Chiesa Matrice ancora viva grazie a loro, e sette gatti che appena lo vedono gli si avvinghiano alle caviglie in un groviglio inestricabile di code e zampe. Se vuoi parlare con lui, non ti resta che percorrere tutta la cittadina e, una volta arrivato sul ciglio della gravina, chiamare a gran voce: “Carmelo!” Puoi star sicuro che prima o poi arriva, e ti porta alla scoperta della sua Ginosa.
Magro e dinoccolato, si ferma spesso in mezzo alle pietre per indicarci una grotta o una cisterna, onesto e fiero come una ferula che svetta nella sterpaglia.
Camminare con lui nella gravina è un’esperienza surreale. Io non sono più io, ma Winkelmann alla scoperta delle rovine del grand tour. E lui non è più Carmelo ma uno spirito effluito da quella terra arcana e che si esprime in una lingua autentica, preziosa come un affresco bizantino inspiegabilmente sopravvissuto sul tufo.
Cristo si è fermato prima di Ginosa
È un rosario di case-grotta ancora intatte, la Ginosa abbandonata, che grazie a Carmelo snoccioliamo progressivamente lungo il cammino come in una preghiera universale. Le visitiamo una per volta, ascoltando i racconti della nostra guida, che ci mostra come quei minimi spazi fossero funzionali a tutto.
Un solo vano condiviso da uomini e animali, due al massimo per i più “ricchi”. Vicino all’ingresso il focolare, ancora oggi nero di fuliggine, in modo che la porta tirasse impedendo al fumo di invadere la grotta. Poi la “zona notte” che occupava quasi l’intero locale, con il grande letto nel quale dormivano tutti insieme, donne uomini anziani e bambini, rialzato in modo che sotto potessero stazionare gli animali, accanto la mangiatoia e, talvolta, delle grandi cavità per poggiare le anfore dell’olio e del vino. Alle pareti le mensole scavate per le poche stoviglie e, sul soffitto, i fori ai quali venivamo fatte penzolare, per mezzo di ganci e ceste in vimini, le derrate alimentari oppure i lattanti in lunghe fasce che fungevano da culla. Mentre la madre era a letto poteva dare così un colpetto al figlio, che dondolava in mezzo alla grotta come un pendolo, nella speranza che smettesse di piangere e si addormentasse, oppure portarselo al petto per la poppata senza staccarlo dal soffitto. Ogni cosa al suo posto, una miseria davvero efficiente.
È proprio come scriveva Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Una condizione ancestrale inconcepibile per un uomo civilizzato come lui, un’umanità detentrice di un “dolore terrestre” archetipico, orfana pure del messaggio salvifico del Cristo. Una società “trogloditica”, che fino all’altro ieri abitava un unico spazio tripartito conteso al buio e all’umidità della roccia: in basso le bestie, a metà gli adulti, in alto gli infanti.
Cerco di immaginarmi questo dedalo di anfratti, oggi arso e deserto, nel vorticare passato di vita voci e storie.
Carmelo le raccoglie come può, queste storie. Ce lo confessa sottovoce: pur non avendo studiato da piccolo, si è messo sotto e fa incetta di tutti i libri che trova sulla città. Si documenta, raccoglie vecchie fotografie, si informa, sa bene che nessun altro può farlo meglio di lui. È il suo dovere, la missione della vita.
Ma che ne sarà di Ginosa? Che ne sarà di queste migliaia di piccoli centri, quando non ci saranno più i Carmelo a tenerne vive le pietre e la memoria?
Chi salverà questa Italia profonda?
Entro il 2050 i pensionati italiani saranno più numerosi dei lavoratori, e già la percentuale degli over-60 ha superato quella degli under-30. Nei borghi in abbandono il fenomeno è più evidente che altrove: quando i bar sono ancora aperti, gli avventori hanno i capelli bianchi. E i cartelli vendesi aumentano di pari passo agli annunci mortuari. Chi si prenderà cura di questo Paese che muore? Chi vorrà recuperare quei luoghi poco performanti, tagliati fuori da una modernità troppo esigente?
Se lo sono chiesti Franco Artiminio e Giovanni Lindo Ferretti, che per i tipi di GOG Edizioni hanno appena pubblicato il pamphlet L’Italia profonda. Una chiacchierata tra due punti di vista molto diversi su un tema a loro caro: la sopravvivenza dei piccoli centri lungo la spina dorsale d’Italia. Una voce dall’Appennino Tosco-Emiliano e l’altra dall’Irpinia, che si interrogano sulle possibili prospettive future di quello che sembra essere un intero Paese dimenticato da Dio, l’Italia delle montagne e dei borghi periferici, ma che resta il punto privilegiato per trovarlo, un dio.
La soluzione, se c’è, non può che nascere da un semplice e profondo moto di amore, fatto di attenzione e consapevolezza, per quelle pietre in progressivo abbandono. L’economia alla base di quelle comunità oggi non è più sostenibile: non possiamo tornare ai campi e ai monti di ieri. Le aree protette e gli alberghi diffusi, il turismo verde e i parchi avventura sono tutte forme di un rivivere posticcio, al pari dei sassi di Matera trasformati in lussuosi B&B. Che non si è ancora capito se creino benefici o danni. Pure se condotto nel più rispettoso dei modi, il recupero di un luogo avviene sempre a posteriori, l’anima è messa in formalina e finisce per puzzare di morte.
E allora, che cosa facciamo? Ci limitiamo a tenere in vita un Paese di “rovine parlanti” impedendo che si trasformino in “ruderi muti”, come direbbe Paolo Rumiz?
Non saranno i cammini turistici né i pellegrinaggi a salvarla. L’Italia profonda vivrà solo nelle opere di chi riuscirà ancora ad abitarla, nascendo e morendo in lei, creando piccole economie sostenibili rispettose delle identità locali. Un progetto come quello del sarto Angelo Inglese, per intenderci; ma è arrivata l’alluvione.
È cósa
Il sole cala sul bordo della gravina, punto dalle antenne dei palazzi che segnano il limes della modernità. Le Asics di Carmelo lasciano impronte leggere sul pietrisco del torrente in secca. All’improvviso si ferma e ci indica una casa sventrata sopra le nostre teste. Due fauci spalancate contro la Chiesa Matrice.
“È stato Pasolini. Per la scena finale del Vangelo secondo Matteo voleva far saltare uno dei sassi di Matera. Ma là non glielo hanno permesso. Allora ha pensato bene di venire qui. Avrà dato poche lire all’amministrazione, e così hanno messo la dinamite. Me lo ricordo: io e i miei amici andavamo spesso a giocare su quel lato della gravina, nelle sale vuote del palazzo, poi l’hanno fatto esplodere. I registi famosi… Che ci vogliamo fare, è cósa.”
È cósa, lo ripete spesso, con quella o che finisce tanto stretta da sembrare una u.
Già, i film, è cósa. Proprio mentre risaliamo la gravina insieme a Carmelo, a Matera le auto di 007 sfrecciano tra i sassi, indifferenti a materani e turisti esclusi da ampie zone del centro. The show must go on e nessuno deve disturbare le riprese. La bellezza si è fatta scenario, e nient’altro. Strano destino di un Paese che muore e, quando va bene, rinasce parco, museo, boutique oppure fenomeno da baraccone.
Il testimone
È il momento giusto per mostrarci “il grido”: le ombre del tramonto ne marcano i tratti. Lo ha individuato nei suoi frequenti andirivieni, quel volto impresso nella roccia. Carmelo ne è convinto ogni giorno di più: la Terra gli parla attraverso quelle forme, vuole dirgli qualcosa, e lui crede di aver capito che cosa.
A vederlo così, dal basso, è difficile dargli torto. Un volto gigantesco che sembra gridare in una smorfia di dolore, laddove l’alluvione ha colpito più forte.
Pareidolia, la chiamano. L’illusione che riconduce a forme conosciute profili o sagome casuali.
Abbaglio o no, le parole di Carmelo sono chiare: l’uomo ha perso l’amore per la sua terra, violentandola; adesso ne è ripagato con la stessa moneta. Il nostro sarà un destino di dolore, se non ritorniamo a prenderci cura di lei.
Ma il volto nella roccia di Carmelo non è solo sgomento. Sopra la testa, il chiaroscuro del dirupo accenna un’altra forma. È un’anfora, simbolo d’acqua in una terra arsa, e dunque abbondanza e benevolenza.
Lo salutiamo nella luce aranciata dei primi lampioni che si riflettono sulle chianche, ringraziandolo per averci consegnato il testimone di tanta bellezza. Lui ci prega di portare con noi un po’ del suo paese che muore.
Ai piedi arriva anche l’ultimo gatto. Carmelo lo chiama e quel nome che sa di sere d’infanzia, Stellina, è per noi l’ultima sua parola mentre svicola oltre la Chiesa Matrice, verso l’unica casa illuminata della vecchia Ginosa.
Cosa ne pensi?
Sono un umanista in rete. Nasco analogico e cresco digitale. Mi occupo di comunicazione e marketing, e sono fermamente convinto che una storia aggiunga sempre valore a prodotti, aziende e persone. Credo nel potere delle parole e delle immagini. Credo negli imprenditori illuminati e nell'umanesimo come filosofia di vita. Nel tempo libero mi nutro di cultura, fotografia, natura e archeologia.
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