All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Oggi ho avuto una illuminazione. E un grosso dubbio, che sento di dover condividere.
Ma devo cominciare un po’ da lontano, perché è una storia sempre un po’ diversa ma che si ripete in modo simile, per cui ho bisogno di fare qualche esempio concreto.
Rappresentare un concetto con un’immagine
Tutto inizia con la pubblicazione di un articolo su Purpletude e il conseguente lancio sulle piattaforme social, in particolare Facebook.
Chi gestisce una rivista o un blog sa bene che le fotografie di illustrazione non si possono scaricare dove e come si vuole: molto spesso sono immagini soggette a diritto d’autore e pubblicarle senza autorizzazione è illegale.
Per questo, ci sono dei siti che hanno delle banche dati piuttosto ampie di foto “royalty free”, ovvero che sono messe a disposizione gratuitamente, solitamente con la richiesta di citarne autore e fonte, ma a volte neanche quello.
Questi siti, come ad esempio Pixabay o Unplash, sono veramente utili; l’unico problema è che non sempre hanno una scelta tale da corrispondere al 100% al tema dello scritto. Per questa ragione, ma anche per suggerire un minimo di evocazione e di curiosità nell’articolo, spesso scegliamo foto simboliche.
Non sempre la scelta è azzeccatissima o immediata. In francese c’è questa espressione che in italiano non esiste, “second degré“, e che indica un significato più sottile di quanto una cosa possa sembrare a primo acchito. Una specie di sotto-significato, che di solito o è ironico o simbolico. Un po’ come la freccia nel logo di FedEx che, quando finalmente la noti, dici “Oooh” e apprezzi la finezza (è tra la E e la X, per chi non ci avesse mai fatto caso). Una roba del genere.
Ecco: quindi ogni tanto le immagini che scegliamo vanno interpretate.
E qui cominciano i problemi
Un breve florilegio di commenti
La foto seguente illustrava un articolo che poneva l’accento sul problema della qualità nei servizi a basso prezzo: la tesi, in pratica, era che difficilmente puoi offrire un buon servizio quando fai prezzi al ribasso.
L’immagine scelta è quella di un consumatore che paragona due mele (si dice: paragonare mele con mele, non mele con pere). L’idea è che i due servizi sembrano uguali e ci si domanda quali siano le differenze.

Ora, i commenti ai post di Facebook su questo articolo sono di questo tenore (riportati pari pari):
“CERTO BASTA CAMBIARE NEGOZI E I PREZZI SONO DIVERSI ..AL MERCATO COSTANO MENO…”
“Chi ce n’è rimette è solo l agricoltore”.
Altro esempio:
titolo e immagine sono un tantino provocatori: “Rappresentare i problemi con i tarocchi di Marsiglia” con l’immagine seguente:
L’articolo non parla né di divinazione né di servizi a pagamento: l’autore spiega che le carte come i Tarocchi possono essere usate anche per esemplificare un problema, come si potrebbe fare pure con figurine, o soldatini, o pezzi di Lego. Hanno dei caratteri simbolici che servono a rappresentare una situazione che, una volta resa “fisica”, diventa più comprensibile ai nostri occhi (e a quelli del nostro cervello – e detto per inciso l’autore è un medico).
Ecco i commenti:
“Nessuno è più potente della volontà di Dio”
“Ladri falsi e ipocriti…. Ciarlatani…”
“Ancora ste cretinate…ma andate aff….TRUFFATORI!”
Reazioni tali che diversi lettori si sono sentiti in obbligo di rispondere ai commenti di questo tipo, spiegando di cosa parlava l’articolo e dando la loro opinione sull’aspetto simbolico delle carte. Anche tra i commenti ai commenti, però, sono spuntati altri ammonimenti:
“Solo la volontà di Dio!!!! È Peccato fare i Tarocchi, spalanchi le porte l’inferno,non capite che vi ingannano.”
E potremmo andare avanti con altre decine di esempi.
Ridere dell’ignoranza altrui?
Ora, dove nasce il mio dubbio?
Devo fare un’altra curva narrativa: vi chiedo la pazienza di seguirmi ancora qualche riga.
Al di là della prima reazione di stupore, questi commenti mi fanno ridere.
E come ogni cosa che fa ridere, ho tendenza a condividerla. Allora mi è capitato di fare degli screenshot e inviarli nel gruppo degli autori di Purpletude. È un fenomeno che esiste anche sugli stessi social media, dove ci sono siti specializzati nel postare commenti assurdi di altri utenti. E farsi quattro risate o versare insieme qualche lacrima.
Anche le nostre, di reazioni, variano da persona a persona: c’è chi si fa una risata, chi un po’ si arrabbia con esternazioni del genere “ma almeno hanno letto l’articolo?!”, altri che si spingono a fare interpretazioni socio-economiche e citano studi sull’analfabetismo funzionale, altri invece che rimangono in silenzio.
E io cosa dico?
Io ho un solo pensiero fisso: “Questa gente vota”.
Come si può pretendere che una persona che non è in grado di capire elementi base di un testo abbia le capacità di districarsi e farsi un’opinione propria su argomenti mille volte più complessi, come la problematica delle migrazioni, dell’emergenza climatica, delle questioni di genere?
E non parlo di capacità cognitive: ma proprio di tipo informative. Non è una questione di intuire come funzionano le cose, si tratta di documentarsi, di leggere, di capire ciò che dicono i documenti, la giurisprudenza, i giornali; ci vuole un allenamento all’utilizzo dei dati e l’abitudine a fare la verifica delle fonti. Si deve essere attenti all’interpretazione delle parole (soprattutto quando a parlare sono politici abili nella manipolazione).
Ecco, ieri pomeriggio, mentre mi ripetevo proprio queste cose, mi è sorto un dubbio. Sì, il famoso dubbio della prima riga.
E se avessero ragione loro? Se il mondo complesso in cui ho l’impressione di vivere in realtà è solo complicato dalla mia capacità di vedere delle problematiche dove non ce ne dovrebbero essere?
Ufficio complicazione cose semplici
Le migrazioni?
L’emergenza climatica?
Le questioni di genere?
Esistono, certo. Però, per fare un esempio semplice, la questione dei migranti è diventata un problema perché qualcuno si è messo a difenderne il principio e qualcun altro si è messo ad ostacolarlo. L’Italia non è veramente invasa dai migranti: ci sono flussi migratori, questo sì, che vanno gestiti; ma se oggi ne parliamo ogni giorno è perché è diventato un simbolo del dibattito politico.
Ma di per sé non è un fenomeno ideologico, è solo una questione pratica: gente che si sposta in un altro Paese alla ricerca di una vita migliore. Come li gestiamo?
Non posso togliermi di dosso né i miei studi né le mie conoscenze, per cui mi è difficile liberarmi da questi occhiali che rendono macro delle situazioni che forse macro non sono. Quando poco fa ho scritto “simbolo” subito ho pensato al suo contrario: “syn + bolo”, dal greco antico “che unisce”, mentre “ciò che separa” è dia-bolo. Il diavolo, simbolicamente quello che impedisce l’armonia, la possibilità di unione, di completezza.
E mentre lo pensavo, una parte di me mi lisciava il pelo sussurrandomi “wow, che cultura” mentre un’altra parte mi gridava nell’orecchio “wow, e allora?” (in una versione più colorita, però).
Capite il dubbio? Il mio dubbio?
La complessità esiste o la creiamo?
Abbiamo tendenza a dare dell’ignorante in maniera molto veloce a chi non capisce qualcosa.
Spesso gli stessi ignoranti danno dell’ignorante ad altri.
Nello stesso modo io posso stupirmi che qualcuno non abbia capito un articolo, o abbia mal interpretato una fotografia, ma in realtà questo accade solo perché la mia cultura mi permette di elaborare un secondo significato (le second degré) di quella informazione. Non vi fa pensare a nulla?
A me è venuto in mente il famoso esperimento del paradosso del gatto di Schrödinger: un gatto chiuso in una scatola con una sostanza tossica che potrebbe attivarsi oppure non attivarsi, e questo noi non lo sappiamo, né lo possiamo verificare, ad esempio tramite l’osservazione, perché la scatola è oscurata e insonorizzata.
Questa rappresentazione della realtà porta a un paradosso: c’è una possibilità che il gatto sia morto e c’è una possibilità dello stesso valore che il gatto sia vivo. Quindi, in quel preciso istante, il gatto è sia morto che vivo, perché entrambe le possibilità sono vere.
Cosa farà la differenza? La nostra osservazione: nel momento in cui vedremo che il gatto è vivo, non sarà più morto.
Allo stesso modo, quando scrivo un articolo sull’importanza dell’inclusione, della diversity e del rispetto della donna, sto validando il fatto che la questione di genere sia un problema. Prima di parlarne, di scriverne, non lo era: in quanto osservatore, vedo realizzarsi solo una delle due alternative (è un problema / non lo è; esiste / non esiste), perché io stesso faccio parte di uno dei due possibili stati dell’intero (ovvero: è un problema E non lo è; esiste e NON esiste).
L’innocenza dell’ignoranza
È un pippone filosofico, lo so, e, mentre ne scrivo, capisco di contraddire la mia stessa tesi: non dovrei essere qui a parlare di questo argomento, perché in qualche maniera contribuisco a crearlo.
Forse il fatto di aver dato significati a ogni aspetto delle nostre relazioni, della nostra società… il fatto di essere ossessionati dal bisogno di capire come funzionano le cose, cosa pensano le persone, cosa pensano di noi le persone… forse tutto questo non ha fatto altro che allontanarci da uno stato naturale in cui dovremmo vivere la nostra vita.
Pensiamo allo stereotipo del ragazzo gay, che vive in una piccola comunità, e che è terrorizzato all’idea di parlare della propria omosessualità con la sua famiglia. Emigra in una grande città, mettiamo Milano, fa le sue esperienze, magari vive la sua prima storia d’amore seria. E a un certo punto decide che è il momento di fare coming out.
La sua nonna novantenne e contadina, in teoria, non ha gli elementi per comprendere la complessità di una situazione di questo tipo. È probabile che quando veda due gay in televisione neanche veramente capisca che si tratta di due persone che si amano e che vanno a letto insieme. Eppure, proprio perché non fa parte del problema, proprio perché la cosa è così lontana dalla sua concezione, nel momento in cui il ragazzo le dice di essere gay, lei le chiederà “Sei malato”. “No.”. “E allora mangia, a nonna, che sii tutto sciupato”.
Accogliere l’altro senza volerlo cambiare
Quindi è questo il dubbio: forse il mondo è complicato solo per chi lo ritiene complesso.
Per altre persone, per molte altre, tutto è più semplice. E fare i superiori, come certi politici, che parlano di analfabeti funzionali, di persone schiave della propaganda, di masse rincitrullite dai lavaggi del cervello mediatici, non ci rende né migliori né, soprattutto, in grado di vivere meglio.
È probabile, ma lo metto al condizionale perché, onestamente, non so veramente cosa pensare a proposito… dicevo, è probabile che invece di pretendere che gli altri ragionino come noi, dovremmo provare a capire qual è il loro punto di vista. Che tipo di preoccupazioni ha la signora che ritiene utile commentare un articolo dicendo che al mercato le mele costano meno, e di andarle a comprare lì? Cosa pensa? Perché lo scrive? O ancora meglio: non chiederci nulla, solo prendere l’informazione che riceviamo dall’altro.
Perché in effetti ho due possibilità, e in base a quella che scelgo, posso creare una realtà o l’altra:
la prima, quella che mi esce spontanea, è alzare gli occhi al cielo e pensare che questa signora non ha capito nulla;
la seconda, ed è quella che vorrei provare a scegliere, è disconnettere il commento da tutto il rumore di fondo e… darle ragione.
È vero, al mercato le mele costano meno. Punto.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.
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