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Una storia di tumori, licenziamenti e rimpianti

Una storia di tumori, licenziamenti e rimpianti

Oggi ho rivisto una cara amica, approfittando del fatto che faceva un breve scalo a Milano. Sono andato all’aeroporto di Linate e abbiamo pranzato insieme, raccontandoci a voce i piccoli e grandi cambiamenti degli ultimi tre anni.

Io, ad esempio, ho lasciato il lavoro e aperto la mia azienda.
Lei, invece, ha subìto l’ablazione bilaterale dei seni, a causa di un tumore. O meglio: a causa di quattro diversi focolai tumorali.

Ascoltare la sua storia di dolore e coraggio, mi ha ricordato un momento della mia carriera di cui non vado particolarmente fiero: il giorno in cui ho dovuto licenziare una collaboratrice malata di cancro. La chiameremo Samantha e vorrei condividere con voi un po’ della sua storia.

Malattia e pagamento del salario

La malattia, e le forme oncologiche in particolare, fanno l’oggetto di una certa tutela da parte del legislatore. In Svizzera, il salario è garantito all’80% per circa 720 giorni, mentre in Italia si garantisce minimo il 66% della retribuzione per la durata di 180 giorni, alla quale si aggiungono varie possibili integrazioni, a dipendenza del contratto collettivo di categoria.

Questo, a condizione di essere salariati dipendenti, perché per gli indipendenti e le varie partite IVA, ci sono pochissimi ammortizzatori sociali, se non le assicurazioni stipulate a titolo privato (che sono spesso un incubo a livello delle condizioni generali, ricche di sorprese e cavilli inaspettati).

In media un uomo ogni 3 e una donna ogni 4 muoiono a causa di un tumore.
La sopravvivenza segna un trend positivo ed è costantemente in aumento, tanto che, oggi, in Italia, la sopravvivenza media a cinque anni dalla diagnosi di un tumore maligno è del 55% fra gli uomini e del 62% fra le donne.

Quello che le statistiche fanno fatica a mettere a fuoco sono le conseguenze per le persone professionalmente attive: una persona su due torna al lavoro dopo la malattia, affetta da danni alla salute più o meno gravi. Queste persone rischiano di trovarsi in balia della sensibilità del datore di lavoro e di regole applicate in maniera rigida.

La storia di Samantha*

A Samantha è successo proprio questo: è rimasta impigliata tra le maglie del sistema.
Quando le è stato diagnosticato il tumore, aveva da poco compiuto 30 anni. C’è questa idea – purtroppo non vera – che il cancro non colpisca la gioventù. E invece.
Anche per Samantha, come per la mia amica, si è resa necessaria l’ablazione di entrambi i seni.

Dopo una mastectomia, sollevare pesi diventa quasi impossibile.
La donna vive frequenti disturbi localizzati intorno alla ferita e sotto il braccio, che si manifestano con formicolii, bruciore o con la sensazione di avere una goccia d’acqua fredda che scende lungo il braccio.
A questo si aggiungono gli effetti collaterali di una eventuale chemioterapia e/o della radioterapia, tipicamente la caduta dei capelli, le nausee e la “bruciatura” della pelle su quello che resta del seno.
Per non parlare degli aspetti psicologici: la paura di non aver debellato completamente la malattia, il disagio di doversi abituare a un corpo profondamente modificato e, per le donne in età fertile, la preoccupazione dell’insorgere di problemi ad avere figli, se non addirittura una vera e propria menopausa indotta.

Il coraggio di continuare a vivere

In questo contesto, Samantha aveva trovato la forza di riprendere in mano la sua vita. E il suo lavoro, per lei, era una parte fondamentale della vita. Per questo, fin da subito, aveva espresso il suo desiderio di tornare a lavorare il prima possibile. Voleva lavorare. Probabilmente, doveva lavorare, per dimostrare a se stessa che era possibile riconquistare un po’ di noiosa e rassicurante normalità.

Per delle questioni legali, non potevamo reintegrarla come collaboratrice a pieno titolo: avrebbe perso il diritto a delle prestazioni legate all’assicurazione invalidità. Inoltre, non era sicura che avrebbe sopportato i ritmi, anche lavorando solo poche ore al giorno. Con le persone che l’aiutavano nel suo percorso, abbiamo quindi concordato un piano di rientro che le avrebbe permesso di mettersi alla prova.

Samantha non ha vissuto bene questa decisione: le sembrava di essere una collaboratrice di serie B, soprattutto nei confronti dei colleghi. Nel piano di lavoro appariva su una riga a parte, perché in realtà avevamo dovuto prevedere qualcuno che l’affiancasse sempre. In pratica, era in sovrannumerario: che ci fosse stata o no, non cambiava niente per lo svolgimento del lavoro.

Ricordo bene le discussioni che abbiamo avuto in interno, con i suoi superiori: onestamente, eravamo tutti mossi da buone intenzioni. Ma non avevamo fatto bene i nostri calcoli: l’idea era che Samantha sarebbe tornata ad essere salariata da noi e non più dalle assicurazioni prima della fine del “periodo di comporto”.

Cos’è il periodo di comporto?

Il periodo di comporto – i giuristi mi perdonino la semplificazione – è un lasso di tempo, durante la malattia, in cui il collaboratore è protetto dal licenziamento; in Svizzera, non per niente, è chiamato “periodo di protezione”, visto che ci piacciono le cose semplici. In generale, il periodo di protezione coincide con il periodo in cui le assicurazioni riconoscono la malattia e la rispettiva indennità di perdita di guadagno.
In realtà, in caso di malattia irreversibile, quando cioè ci sono buoni motivi di credere che il collaboratore non potrà mai più rientrare al lavoro, il licenziamento è possibile anche prima, ma di solito i datori di lavoro lasciano comunque scadere il periodo di protezione/comporto.

Nel caso di Samantha, c’è stata una recidiva. Il tumore è tornato. Lo stesso tumore, per cui la stessa malattia: concretamente, è arrivata alla fine del periodo in cui era protetta dal licenziamento nel momento in cui stava tentando il reinserimento. Per una regola interna, la nostra azienda non prevedeva eccezioni: l’ho dovuta chiamare nel mio ufficio e licenziare. Era malata di cancro. L’ho licenziata.

Al di là di come mi sono sentito io, e di come si sia sentita lei, questa nostra decisione ha avuto un impatto fortissimo su tutte le persone che lavoravano con Samantha. Avevano appena assistito all’annientamento di quello che credevano un diritto inalienabile: essere tutelati in caso di malattia grave.

Uno non è che si ammala di cancro per non lavorare o per frodare le assicurazioni.
Tutto il nostro sistema sociale di stampo Europeo ha proprio questo obiettivo: difendere la persona nel momento del bisogno. Del vero bisogno.

Cadere nella fossa della burocrazia (e restarci)

Samantha si ritrovava ammalata, a dover affrontare nuovamente le cure oncologiche; aveva perso il lavoro, e con esso sia i mezzi di sostentamento economici che la rete sociale, non aveva più diritto alle indennità malattia e la richiesta di invalidità era in alto mare perché mai più si sarebbe immaginata di ritrovarsi inabile al lavoro in maniera permanente a 30 anni.
Non è raro tra i malati oncologici, quasi per scaramanzia, non inoltrare alcuna domanda in questo senso, perché in quel momento hanno bisogno di credere al 100% nella possibilità di guarire. Che poi dal cancro, purtroppo, non si guarisce. Ci si può curare, ma non si guarisce.

Nel gergo delle risorse (dis)umane, Samantha è caduta in quello che chiamiamo un “buco assicurativo”. È raro e ci vuole l’allineamento di tutta una serie di condizioni, ma non è impossibile: si cade in una specie di terra di nessuno, dove le Istituzioni spariscono e tutto è rimesso sulle spalle del datore di lavoro, al quale non resta altro che applicare la legge, nella nostra costante paura di creare dei “precedenti”.
A volte è difficile far capire che le eccezioni sono spesso giustificabili umanamente, ma non lo sono contrattualmente. E anche se può sembrare che ci si nasconda dietro a dei pezzi di carta, in realtà stiamo puntellando gli ultimi baluardi del trattamento equo. Perché le eccezioni sono sempre fatte ad personam, e non è mai una buona cosa, per lo meno non su queste tematiche che toccano aspetti etici.

Un lieto fine e qualche rimorso

Samantha è sopravvissuta e, a quanto ne so, sta meglio.
Dopo qualche mese mi aveva scritto una lettera molto dura. No, dai, diciamoci la verità: aveva mandato un’accorata nota di protesta.
Non ricordo le parole che aveva utilizzato per descrivermi, ma ne uscivo come qualcuno di spietato e senza umanità.

La cosa peggiore, in quel momento, è che mi ero sentito ferito per quelle parole. Perché ero convinto di aver fatto tutto quanto era in mio potere per sostenerla. Ma le regole sono le regole. E nel dirmi questo e nel sentirmi “offeso”, il dubbio che fossi un po’ bastardo mi era venuto, a essere sincero.
In fondo, Samantha aveva trovato il coraggio di esternare la sua sofferenza, la sua incredulità di fronte al trattamento che le avevamo riservato in un momento così difficile, e io mi preoccupavo di quello che si poteva pensare di me? Della mia reputazione? Che uomo-merda. Ma questa è dietrologia. Sul momento ero solo molto molto arrabbiato e deluso e dicevo frasi del genere “Vedi, uno cerca di essere gentile e guarda come finisce, meglio essere stronzi”.

Il paradosso è che anch’io sono stato gravemente malato. Era il 2004. E quindi so cosa vuol dire ritrovarsi diminuito, impotente, impossibilitato, tagliato fuori da quella che, volente o nolente, è la nostra vita: le lunghe ore che passiamo al lavoro. Ma questa è un’altra storia, che vi racconterò sicuramente, prima o poi.

Ciò che conta veramente

Mentre mi appresto a concludere la storia di Samantha, mi domando se il fatto di averne parlato mi faccia sentire meglio.
Non credo. E, soprattutto, sento che l’intento non doveva essere quello di alleggerirmi. Ho pensato che a fine anno ricordarci che certe cose non sono certe per niente avrebbe potuto farci affrontare il futuro con maggiore consapevolezza.

Non è un caso se in questo periodo natalizio abbiamo l’abitudine di augurare felicità e salute.
E dopo questo ricordo difficile che ho condiviso, il mio augurio per te che leggi è solo questo: un anno nuovo in buona salute.

Sempre.
Buone feste a tutte e a tutti.

 

NOTA:
Editato il 26.12.2018, con una correzione delle statistiche di mortalità (1 donna su 4 e non 1 donna su 6 come scritto in precedenza).

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