
Valentina Maran è nata a Varese nel 1977. È una…
Il giorno in cui è capitato non avrei mai pensato di dirlo, ma sì, la cosa migliore che mi sia capitata durante la carriera lavorativa è essere licenziata.
Ricordo ancora quel giorno: dopo il week end passato sul set – faccio la copy, stavamo girando la pubblicità di un detergente intimo – rientro in agenzia al mattino.
Lavoro un’oretta, le solite cose: mail da smazzare, telefonate coi fornitori, settimana da pianificare, in attesa dell’ok per registrare l’audio del nuovo spot.
Poi i capi mi chiamano in sala riunione.
“Puoi venire? Dobbiamo parlarti”.
Mi si sono seduti entrambi di fronte e mi hanno semplicemente detto che l’internazionale di cui facciamo parte ha deciso di imporre dei tagli al personale e hanno deciso di licenziare me.
Senza nessun “ci dispiace”, senza altro. Nessuna avvisaglia i giorni prima… e poi una doccia gelata di spilli, una vertigine che ti fa domandare dove sarai domani. Il tuo posto non esiste più. Tu non servi più.
La prima cosa che pensi è che sarai povera. Non scherzo: pensi subito che non ti potrai permettere più nulla, dovrai correre ai ripari, che devi subito tagliare il tagliabile.
Pensi: “E le bollette?”
Poi c’è stata la rabbia: cominci a contare le ore di straordinario non retribuite, a pensare a quello che hai fatto, a quanto non ne sia valsa la pena, al fatto che hai fatto tanto per la società che ora ti ripaga mettendoti alla porta, tu e le tue domeniche lavorative e le notti non retribuite. Il tempo tolto a chi ami per sentirsi dire “sei licenziata”.
Ti trovi a dare ragione a chi ti diceva di smetterla di lavorare così tanto. Che tanto non stavi salvando la vita a nessuno: inutile.
Lo smarrimento è durato qualche giorno: il tempo di sentire un avvocato, mettere in pista la causa per il licenziamento, prendere le mie cose e covare il giusto risentimento verso i capi che, per fortuna loro, non ho più incontrato. In quel periodo mi sono presa le ferie più belle della vita: quelle senza meta, che si decidono di giorno in giorno e con un grande salto nel vuoto al rientro.
Non sapevo cosa avrei fatto, poi ci ha pensato il talento.
Si, devo comunque dire grazie a quegli anni di attività a testa bassa perché la gente ha apprezzato quello che ho fatto.
Hanno cominciato a chiamarmi: sentito che mi avevano licenziata, hanno cominciato a cercarmi per passarmi dei lavori a tempo.
Così ho fatto, la voce si è sparsa, e incredibilmente da dieci anni a questa parte lavoro.
Alla fine fare il freelance è questo: non avere certezze di quello che farai domani.
Abituata al “non lo so”.
Sicuramente ci sono liberi professionisti più abili di me nel riuscire a pianificare con una certa stabilità il loro futuro. Io no. Non chiedetemi per chi lavorerò domani perché non lo so. E cosa incredibile che continuo a ripromettermi da dieci anno a questa parte è che appena avrò tempo scriverò un libro. Appena mi libererò da quella consegna, appena fatta quella telefonata, appena sfangata quella presentazione, mi rimetterò a scrivere.
E da un lavoro ne scaturisce un altro, un tuo cliente parla bene di te a un suo contatto ed eccoci qui, dopo 10 anni, a poter dire con certezza che non tornerei mai indietro.
Le notti che faccio le faccio per me perché io ho deciso che quello che devo fare è tanto urgente da meritarsi una notte insonne.
Sono io che decido quando prendermi dei giorni di libertà – il lavoro di freelance è fatto anche di questo: sapere quando è il momento di concedersi un pomeriggio libero per fare quello che vuoi.
Mi hanno proposto più volte di tornare a fare la dipendente, ma la libertà che provi nel lavorare da sola è troppo piacevole per rinunciare a favore della stabilità.
Ho fatto pace coi miei dubbi.
Lavorerò tutta la vita? Resterò abbastanza aggiornata e in gamba da essere una professionista affermata anche quando sarà arrivata l’età della pensione?
Potrò permettermi di continuare a fare un lavoro creativo anche da anziana?
Non lo so. Questi 10 anni sono volati. E non mi sono pesati.
Però la mia dolce vendetta me la sono presa: ho scritto un libro – che reputo un lavoro minore – dedicato al mondo della pubblicità. Mi sono tolta un po’ di sassolini dalla scarpa. Non ho fatto nomi, ma chi doveva sapere, ora sa, e conosce i retroscena. È stato il mio modo di salutare la vita da dipendete in favore di questa, più instabile, ma decisamente più gratificante.
Voi come avete reagito al licenziamento? Alla fine si è rivelata un’esperienza positiva?
Cosa ne pensi?

Valentina Maran è nata a Varese nel 1977. È una copywriter freelance. Si è formata nelle più grandi agenzie di comunicazione milanesi e dopo un trionfale licenziamento ha scritto “Premiata Macelleria Creativa” (Fandango 2011). Scrive per riviste, committenza privata, blog di ogni tipo e si occupa prevalentemente di questioni di genere, femminismo, parità di diritti nella comunicazione. Con la sua socia Vanessa Vidale ha una piccola agenzia di comunicazione che si chiama NoAgency dalla quale non può licenziare nessuno, tranne se stessa. Da anni è docente in corsi ITS e IFTS post diploma dove insegna creatività.