Dal 2007 mi occupo del Career Service di Fondazione Campus…
Ho letto un libro tempo fa, uno di quei libri classici, ma comunque meno noti al grande pubblico. L’autore è un grandissimo scrittore dell’Ottocento, che ha scritto uno dei più imponenti libri della storia dell’uomo, Moby Dick. Sto parlando di Herman Melville. Il racconto in questione è Bartleby, lo scrivano.
Un libro che fonda la sua forza narrativa nell’opporsi, ma anche nella umile solerzia nei confronti del lavoro del protagonista.
La storia è semplice: il titolare di uno studio legale assume un nuovo dipendente, all’apparenza molto umile, educato e con grande dedizione al lavoro, il quale alle richieste del capo risponde sempre con la frase ormai diventata iconica “I would prefer not to!” ovvero “Preferirei di no!”. Una negazione che spiazza perché è educata e al contempo risoluta. Ma la cosa che stupisce è l’impegno che il dipendente, Bartleby, mette nello svolgere il suo lavoro. Si trattiene fino a tardi, vive nello studio per portare avanti i suoi compiti. E ad ogni richiesta dell’avvocato la sua risposta è sempre “Preferirei di no!”
Cosa si cela dietro questa risposta? Perché ha condotto numerosi critici e filosofi a ragionare sul vero significato che questa affermazione porta con sé? Un rifiuto detto con gentilezza e che sembra dettato dalla mancanza di tempo di svolgere un determinato lavoro (trovi qui una mia recensione, se vuoi saperne di più sul libro).
Il no necessario per la tua dignità
E noi, quando diciamo di no?
E soprattutto siamo in grado, nel lavoro, di dire di no con lo stesso tatto e gentilezza? Nel passato ho svolto un’attività da libero professionista e, specialmente nella fase iniziale, era diventato per me quasi impossibile dire di no, perché c’era la volontà di farmi conoscere, di dare visibilità al mio brand e soprattutto al mio stile di lavoro.
Scendevo a compromessi e offrivo il mio servizio a una cifra molto più esigua se corrisposta al tempo e alla qualità che impiegavo a svolgere quell’attività. Perché oltre a dire di sì dovevo eseguire bene il lavoro richiesto e come se venissi pagato profumatamente. Dovevo farmi valere. Dire no però equivaleva a perdere delle opportunità, a non guadagnare proprio niente, nemmeno quel piccolo riconoscimento.
Se in una prima fase poteva essere un giusto modo di porsi sul mercato, successivamente questo fatto mi ha creato qualche problema, specialmente con le persone che mi avrebbero potuto diventare clienti abituali. Perché l’ultima volta mi hai chiesto tot e ora mi richiedi due volte tanto? Vaglielo a spiegare che cercavi di farti conoscere… come minimo non lo rivedevi più, solo perché a un certo punto della tua carriera DEVI chiedere di più.
Allora diventa una selezione, diventa un’occasione di farti i clienti che vuoi, di lavorare con persone simili al tuo ideale di cliente, e soprattutto che pensi essere degni del tuo lavoro. Cominci a metterti in posizione eretta, conquisti una professionalità (= dignità) e il tuo lavoro assume una qualità riconosciuta (almeno dalla maggioranza delle persone perché i tuoi primi clienti continueranno a sentirsi offesi del mancato sconto).
Il coraggio di dire di no
Talvolta però dire di no è un atto di coraggio, sì come quello della scelta: scelgo questa cosa e non scelgo l’altra, seleziono, innalzo e scarto. È quando il no diventa principio morale: io questa cosa non la faccio perché NON la voglio fare. L’etica entra in gioco e può comportare molte complicazioni.
Il no detto con convinzione, ma sempre con la giusta educazione, è anch’esso una scelta di vita: voglio essere in un determinato modo, voglio essere riconosciuto per questo modo di agire, voglio fare la differenza in un mondo di yes man.
Il personal branding insegna che nel prendere una posizione, nel dire di no a determinate azioni, costruisco la mia identità. Nel non trovarmi d’accordo e nell’esprimere il mio punto di vista senza remore, senza paure e senza falsità sta tutto il mio potenziale e la narrazione della mia vita professionale.
E allora il no diventa il più alto segno di ribellione, è lo strumento che rende gli umani liberi e capaci di agire, nella vita, nella società e nel lavoro. La mamma dice al bambino di andare a letto, e il bimbo risponde con un sonoro NO! Ecco il segnale che avvia il processo di educazione, della riflessione, del trovarsi suscettibili a una risposta che non ci aspettavamo.
Ci obbliga a reagire, nel bene e nel male.
Il no è un segno di rivoluzione che si trasforma col tempo in segno tangibile di evoluzione.
Cosa ne pensi?
Dal 2007 mi occupo del Career Service di Fondazione Campus di Lucca ovvero supporto gli studenti dei corsi di laurea e dei corsi professionali della realtà formativa a orientarsi nel mondo del lavoro e trovare le opportunità formative e professionali più confacenti alle loro competenze e attitudini cercando di favorire il placement. Nel corso degli anni ho ampliato le mie conoscenze di comunicazione e marketing per comprendere la relazione tra le persone e il lavoro focalizzando l’attenzione sulle tecniche di personal branding e reputazione offline e online.